Articoli su Giovanni Papini

1991


Maria Carla Papini

rec. I «Racconrti di gioventù» di Giovanni Papini

Pubblicato in: Studi Novecenteschi, Vol. 18, fasc. 41, pp. 51-62
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Data: giugno 1991



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La fotografia è strappata a metà, sotto il cuore. È piccina, sudicia e stinta: i bordi del cartoncino son neri, come le cornici dei morti. Un viso sbiancato di bambino sognante guarda verso sinistra e si sente che lì a sinistra, difac¬cia a lui, nessuno lo guarda. Gli occhi son tristi, un po' affossati - non son venuti bene? -, la bocca è chiusa a forza, coi labbri un po' sopramessi, per non far vedere i denti. Unica bellezza: i riccioli morbidi, lunghi, inanellati che cascan giù sul bavero della marinata. 1.

Il ritratto, la fotografia, di Papini, bambino di sette anni, ne delinea così l'immagine nelle prime pagine di Un uomo finito, e già nei suoi tratti - gli occhi tristi, la bocca serrata - par volerne rilevare, con la malinconia, il carattere saliente: la chiusura agli altri e in se stesso, nella propria solitudine sognante. Ritratto questo che, non a caso, ne anticipa, quasi riassume, un altro e più completo, quello, appunto, che Papini viene stendendo nella sua autobiografia, ed in cui, ancora una volta, la ripulsa, la «fuga dalla realtà» 2 e, dunque, l'isolamento, l'egocentrico ripiegamento in sé, nella propria chiusa interiorità, risultano - e intenzionalmente - elementi precipui della descrizione che egli dà di se stesso, dell'immagine che egli traccia di sé, per sé e per gli altri, quella in cui si riconosce e riflette la propria smarrita identità, quella che netta si staglia in uno degli ultimi capitoli di Un uomo finito, intitolato appunto Chi sono:

Io sono, (...) un poeta e un distruttore, un fantastico e uno scettico, un lirico e un cinico. (...) Io sono a momenti un povero sentimentale che si commuove nella notte solitaria (...); un bambino che trabocca di tenerezza (...); un disgraziato che può sentirsi pieno d'amore per un vecchio sconosciuto, per un amico morto, per un fiore reciso, per una casa chiusa. In


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altri momenti, invece, divento il lupo hobbesiano dalle zanne che hanno bisogno di mordere e di strappare. Nulla è sacro per me (...). Mi piace di sgretolare, di rodere, di offendere, di alzare i veli, di spogliare i cadaveri, di levar le maschere. (...) Ma dopo questa furia divoratrice torna fuori il fantastico che immagina storie impossibili, che deforma la realtà, che proietta nel comodo specchio dell'immaginazione i suoi istinti più malvagi, i suoi desideri più forsennati, che crea più in grande gli uomini che odia e gli animali che ama, prendendo dalla vita stessa lo spunto reale per prolungarlo e ingigantirlo nel sogno. (...) Io son rimasto, insomma, l'uomo che non accetta il mondo e in questo mio atteggiamento ostinato consiste l'unità e la concordia delle mie anime opposte. Io non voglio accettare il mondo com'è e perciò tento di rifarlo colla fantasia o di mutarlo colla distruzione. Lo ricostruisco coll'arte o tento di capovolgerlo colla teoria' 3.

Specie di Dr. Jekill e Mr. Hyde novecentesco, il Papini che appare da questo «autoritratto» del 1912 pur concretamente allude, nell'ambiguità della sua fisionomia, agli esiti estremi, e contrastanti, di un'attività letteraria che, infatti, se di lì a poco si sarebbe espressa nell'adesione polemica e dissacrante dell'«esperienza futurista» 4, solo pochi anni prima aveva dato forma alle invenzioni fantaatiche de Il tragico quotidiano e de Il pilota cieco 5. Un'attività che viene dunque giustificata e motivata, proprio nell'eterogeneità delle sue manifestazioni, dall'unico, comune impulso, deleterio e costruttivo insieme, di rifiuto della realtà ma, quindi, anche dal progetto implicito e conseguente di ricrearne un'altra, diversa, a propria immagine e somiglianza:

Io sentivo dunque fortemente in quel tempo il disgusto per il reale. Non approvavo, non accettavo l'universo com'era. La mia attitudine era dispettosa e fiera come quella di un capaneo conficcato in un terrestre inferno. E tendevo a negare il reale, a negare le copie del reale, a disprezzare le regole della vita reale, e a rifare da me, a modo mio, un diverso e più perfetto reale 6.


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E d'altra parte, già sulle pagine del «Leonardo» Papini aveva dichiarato che nessuna creazione era possibile senza un'opera distruttiva che le desse «lo spazio e la libertà onde alzarla superba al cielo» 7. Pur tuttavia tale perentorio e globale rifiuto della realtà, dell'oggetto esterno, implicito, com'è in Papini, alla dinamica stessa dell'atto creativo e, quindi, artistico, non può non condizionarne le modalità espressive apparendo così, a ben vedere, fattore determinante e intrinseco alla genesi dell'opera letteraria dello scrittore fiorentino, almeno per quanto riguarda tutto il periodo precedente al primo conflitto mondiale. Al rifiuto sia pur provocatorio, ma globale, del mondo, della realtà esterna, alla premeditata e consapevole negazione di un Altro da sé precostituito in cui confrontarsi, riconoscersi ed affermarsi nella misura dell'efficacia del proprio intervento, corrisponde inevitabilmente lo smarrimento, la perdita di un'identità che si piega e si riflette in se stessa e solo in sé, nella propria immagine, trova riscontro al proprio essere, in sé l'unico interlocutore, e in sé l'autore, il creatore di una realtà alternativa a quella già respinta e negata, il mondo del fantastico e dell'immaginario reso concreto nello spazio della scrittura, nel tempo, indefinibile, del racconto:

E così mi nacque attorno, senza volere, tutto un mondo fantastico, opposto al reale, dove potevo ritrarmi a piangere e rammemorare, dov'ero padrone e re senza legge. (...) Era quello un mondo torbido e chiuso, dove l'ombra soverchiava la luce e il tragico usciva fuor dall'ordinario; un mondo abitato da giovani pallidi e senza illusioni, da uomini posseduti e martoriati da idee fisse e da nuovi spaventi; un mondo in cui gli atti eran radi ma turbinosi i pensieri; e dove non eran distinti i confini del verosimile e dell'immaginario, della vita e della morte. Era un altro mondo: era il mio mondo: oscuro e terribile, sì, ma che non era almen questo mondo, il mondo di tutti 8.


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È il mondo che popola e caratterizza i racconti de Il tragico quotidiano (Firenze 1906), de Il pilota cieco (Firenze 1907), di Parole e sangue (Napoli 1912), pagine di un Papini dimenticato ma non a caso riscoperto da Borges 9. Pagine che se possono apparire estravaganti rispetto a quelle del Papini più conosciuto e diffuso, sono peraltro quelle che più ne mostrano l'impatto precoce con la cultura europea, l'assunzione di tematiche che da essa derivano e la presenza, in nuce, di problematiche che, affrontando direttamente il rapporto tra reale e immaginario, concreto e fantastico, veglia e sogno, ed anche — schopenhauerianamente — tra realtà e rappresentazione, sostanza e forma, anticipano temi ed èsiti artistici che di lì a poco avrebbero trovato pronta rispondenza nella metafisica dechirichiana 10, e che si aprono ad una percezione «altra» del reale — e del ruolo dell'arte nei suoi confronti — che preannuncia, sia pur con soluzioni diverse, le premesse di un surrealismo ancor di là da venire e, soprattutto, quelle che saranno poi proprie del realismo magico bontempelliano. L'azione di un Papini polemico maître a penser dell'avanguardia pare così orientarsi — nel decennio che più o meno intercorre tra la fondazione del «Leonardo» e la collaborazione a «Lacerba» — in due direzioni che, per quanto apparentemente divergenti, derivano pur dalla stessa matrice ideologica e sono fra loro strettamente connesse e conseguenti. Non solo: il legame che viene così a stabilirsi tra l'universo fantastico e irreale dei Racconti di gioventù' 11 e l'esperienza futurista, mentre innesta un rapporto non del tutto da sottovalutare tra influssi e discendenze culturali di stampo anglosassone e francese, richiama quello analogo che, tra il 1916 e il '18, avrebbe condotto i giovani redattori de «L'Italia


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futurista» - nata, fra l'altro, paradossalmente in polemica proprio con «Lacerba» - verso esperienze di tipo schiettamente protosurreale 12. Una linea, un filo sottile s'inserisce dunque - anche tramite l'intervento teorico e artistico di Papini - a collegare le due maggiori avanguardie primonovecentesche ma anche a mettere in luce la presenza di un filone letterario magico - e non a caso Papini definisce, appunto, «psicologico o magico» il proprio pragmatismo 13 - nel quale è possibile individuare - sia pur con i dovuti distinguo - il corrispettivo italiano del surrealismo e che, se troverà sviluppo e definizione nei testi di Corra, di Ginna, della Ginanni o nell'opera teorico-letteraria di Bontempelli soprattutto nel decennio successivo alla prima guerra mondiale, ha già in questi racconti di Papini fondamentali e fertili premesse.
   Si tratta di un diverso approccio alla realtà o, per dirla con Papini, del «possesso della migliore realtà» 14, quella che - come De Chirico avrebbe a sua volta intuito - sfugge alla distrazione umana nell'apparente, consueta ripetizione delle cose, ma è insita in esse e, soprattutto, aggiunge Papini, nella coscienza intima e profonda di ogni uomo:

La sorgente del fantastico ordinario è materiale, esterna, obiettiva. Io ho voluto trovare un'altra sorgente. lo ho voluto far scaturire il fantastico dall'anima stessa degli uomini, ho immaginato di farli pensare e sentire in modo eccezionale dinanzi a fatti ordinari. (...) Io credo fermamente alla superiorità di questo fantastico interno sul fantastico esterno degli altri novellieri. (...) L'anima umana è più grande dei più grandi imperi e se ci saranno ancora scoperte da fare nel mondo non le faremo che addentrandoci in essa senza timori. «Sappi vedere - cantava William Blacke - il mondo in un grano di sabbia, tutto il cielo in un fiore selvaggio!» Ma il nuovo imperativo è questo: sappi vedere tutto il mondo in te stesso 15.


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Un imperativo che appare difatti essenziale alla giustificazione e alla genesi di questi racconti e che sembra, inoltre, utile all'individuazione del particolare approccio di Papini all'immaginario. Approccio che, come si accennava prima, mentre si discosta dall'accezione tradizionale — e ottocentesca — del fantastico, cercandone le motivazioni e gli impulsi in un substrato intimo e inconscio che non può non rimandare al saggio sul Perturbante freudiano o agli studi sul Doppio di Rank, proprio perciò anticipa l'esigenza esplorativa dell'inconscio e la conseguente visione alogica del reale che sarà, poi, propria del surrealismo. E, tuttavia, l'universo fantastico papiniano si situa in un contesto ordinario e consueto dove, come vuole lo scrittore, lo stupore, la meraviglia scatta a contatto con eventi abitudinari e del tutto normali, sconvolgendone sì l'iter consueto — riguardo all'aspettativa del lettore — ma inserendovisi comunque come fattore intrinseco ed altrettanto inerente al reale della sua scontata, quanto ingannevole, apparenza. In questo senso, allora, il percorso fantastico di Papini sembra approssimarsi al realismo magico bontempelliano ma anche segue itinerari simili a quelli di Marcel Aymé, sfiora l'Ebdomero dechirichiano e si allinea a quella visione totale — apparenza e mistero — della realtà che sarà tentata da Savinio. Ma, al di là di influssi, concordanze e anticipi più o meno individuabili, lo specifico dell'immaginario papiniano risiede proprio in quell'imperativo — «Sappi vedere tutto il mondo in te stesso» — che indica a un tempo il solipsismo e la scelta volontaristica, eroico-prometeica che ne deriva. Al rifiuto di una realtà monotona e ripetitiva — «Il mondo è monotono, il mondo è continuamente eguale a sé stesso, il mondo si ripete» 16 — consegue, si diceva, la perdita dell'Altro e, insieme, quella della propria identità. Non esiste più oggetto a cui confrontarsi o adeguare la propria personalità:


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«il mondo» dirà Papini «è la nostra rappresentazione» 17 e gli uomini «ombre passeggere sullo schermo della mia sensibilità, fantasmi evocati dalla mia volontà, burattini pretensiosi del mio teatro interiore» 18. Unico sopravvissuto — «unico vivo in una piazza d'ombre» 19 — il soggetto smarrito di fronte agli effetti della sua stessa repulsa, ricerca, ricostruisce nella sua medesima, nella sua sola, opera un'altra realtà o, meglio, una realtà «altra», diversa da quella respinta e, in essa, la propria identità, l'immagine di sé. Così nei racconti de Il tragico quotidiano, de Il pilota cieco o di Parole e sangue, il tema dello smarrimento dell'identità, della sua perdita si accosta a quello, ad esso complementare, del doppio. Nascono allora storie come quella de L'uomo che ha perduto se stesso, dove il protagonista, durante una festa mascherata, guardandosi nello specchio, non riesce più a riconoscere la propria immagine in mezzo a quella di tanti altri abbigliati come lui:

Son con la faccia voltata verso lo specchio... ma ce n'è altri che la voltano. Io son alto e son quasi tutti alti e magri come me! Dove sono dunque io fra tutti costoro? Dov'è il mio me fra tutti questi estranei silenziosi? Tutti bianchi con i visi neri... Anch'io come gli altri... Tutti eguali, tutti... Ma io voglio me! Voglio cercarmi! Voglio sentire me stesso! Vedermi con gli altri ma differente, staccato dagli altri! Voglio vederrni, essere io! Mi son perduto — ho perduto me stesso... Dove sono? Cercatemi, ritrovatemi!... 20.

Nascono personaggi come quello di Chi sei?, improvvisamente misconosciuto da tutti, dimenticato, reso inesistente dall'indifferenza altrui:

Ora gli altri mi rinnegavano e affermavano di non conoscermi e allora io rinnegavo quello che c'era di loro in me stesso e non volevo riconoscere come mio ciò che mi avevano imposto. E senza paura domandano ora a


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me stesso: Chi sei? (...) Io sono uno per cui gli altri non esistono. Questa cecità e amnesia degli uomini verso di me era una prova che in nessun altro modo avrei potuto vincere. Avevo ritrovato me stesso 21.

E qui sta il punto, la chiave — di lettura — del testo. Come nella più classica patologia narcisistica è proprio il sentirsi disamato, rifiutato dagli altri ad indurre l'individuo a rifiutarli a sua volta, ed escluderli dalla propria prospettiva di desideri e di affetti e quindi a ripiegarsi su di sé e a rivolgere su di sé quell'attenzione che agli altri è volutamente negata. Non a caso l'impossibilità di amare o di essere amati è motivo ricorrente in questi racconti. Prototipo ne è certo il Don Giovanni di Colui che non poté amare (T. Q.), alla sconsolata ricerca di un ideale introvabile e, forse, impossibile. Ma come per lui, anche per gli altri protagonisti di queste storie l'amore non esiste: è lo scherzo dell'uomo sposato, in vacanza dalla legittima consorte 22, lo sfarfallio indeciso di uno scapolo annoiato 23, l'avventura casuale e subito importuna 24 o, più semplicemente, la magia di un luogo 25, la vanità di un ricordo 26, è, soprattutto, ancora una una volta, il rifiuto dell'amore stesso, nella certezza di una condanna: quella di non poter essere amati 27. Di qui il senso di inutilità della vita, il tema del suicidio 28, ma, più ancora, e significativamente, quello della prigione: il carcere in cui volontariamente si rinchiude l'omicida de Il prigioniero di sé medesimo 29, l'isolamento e il senso di estraneità che suscita il grido, La preghiera del palombaro:


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mi rivolgo a te, uomo dalle precoci e insaziabili perversità e dai segreti ben custoditi, e ti prego, in nome della terra da cui nascesti, della terra che ti nutre, della terra dove ti trascini, ti prego di dirmi perché non comprendo e non amo la vita degli uomini» 30.

Reclusione volontaria, esilio premeditato, ma, soprattutto, carcere imposto, forzato, ineludibile, prigione di carne e sangue in cui l'uomo è inevitabilmente costretto, schiavo di un aspetto, di un'identità, di un destino immutabile, carcere che lo chiude in sé e agli altri, estraneo a questi come, anche, a sé stesso:

Da una cupa prigione di carne veniamo al mondo (...). E appena liberati vogliamo edificare una prigione nuova; una prigione più terribile, un carcere di spirito. (...) E verrà il giorno del pianto (...). Il giorno della scoperta del deserto! (...) E anche tu saprai di aver voluto dare quello che non avevi: la verità — di aver voluto donare a chi non aveva vasi da raccogliere i tuoi doni — di aver parlato senza che nessuno ti comprendesse — di non aver compreso ciò che volevi dire. L'ultimo giorno sarà venuto. La tua anima sarà come una città devastata, come una torre distrutta. E vorrai ancora scavare i profondi strati di cenere per ritrovare nel cuore del mondo qualche fiamma nascosta. Ma tutto sarà spento, tutto freddo (...). Tutto sarà morto perché tu sarai morto. (...) Allora, amico e fratello mio una sola cosa ti resta: la tua vecchia caverna, il tuo covo misterioso, la tua fortezza chiusa che abbandonasti il giorno della pienezza. Tu ricordi ancora le mura alte e nere, i laberinti sotterranei, la tenebra tentatrice. Torna, o mendico moribondo, alla tua tana di fanciullo! Abbi la forza di murarti di nuovo nella tua clausura, serrato con sette chiavi, chiuso con sette suggelli. Sii il tuo prigioniero e il tuo carceriere. (...) E lascia dietro le tue spalle, al di fuori della porta, gli enigmatici fantasmi che tu chiamavi gli altri 31.

La soluzione, l'abbiamo visto, è letteraria, meglio, è letteratura. La pagina, il foglio, il testo diventa infatti il luogo, la superficie in cui il soggetto — l'autore?— ridisegna e recupera la propria identità perduta, lo specchio in cui riflette e riconosce la propria immagine ma in cui, anche, essa si staglia e spicca di per sé, con una propria autonoma presenza: il doppio, l'altro, l'unico altro da sé con cui ancora confrontarsi.


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Così, in Due immagini in una vasca (P. C.) come e all'inverso nel mito di Narciso, il protagonista, tornato dopo molti anni nel vecchio giardino di una città, guardandosi in una vasca vede delinearsi, accanto alla propria, l'immagine del sé stesso di un tempo, e questa prende corpo e parola fino a invaderne la vita e a costringerlo, per liberarsene, a risospingerla nell'acqua da cui già era emersa. Oppure, ne Il ritratto profetico (P. S.), la storia del personaggio le cui fattezze — come e all'inverso che nel romanzo di Wilde — si adeguano col tempo, fino ad assimilarsi a quelle del suo ritratto. Il mondo dell'immaginario si concretizza sulla pagina, prevale su quello della realtà, si sostituisce ad esso, addirittura lo precede. Nella Storia completamente assurda (P. C.) il protagonista, intento a scrivere «alcune delle più false pagine» delle sue memorie, è sorpreso dalla visita improvvisa di uno sconosciuto e, sbigottito, si sente leggere, come puro frutto dell'inventiva dell'ospite, «la storia (...) precisa e completa» di tutta la sua esistenza. Analogamente Speranza, nel racconto omonimo (P. S.), immagina e scrive fatti e vicende che si realizzeranno, poi, puntualmente nella sua vita. La realtà imita la letteratura, ne è la proiezione, la pallida, incompleta riproduzione. I termini dell'eterno rapporto tra reale e immaginario, verità e finzione, vita e letteratura sono, così, invertiti, capovolti. L'«altra» realtà, quella astratta e impalpabile del sogno, della fantasia, dell'immaginazione ha preso il posto del concreto quotidiano rifiutato e respinto e l'artista, lo scrittore ne è l'autore, il creatore.

E così mentre aspettavo di piegare e rifare il reale coi prodigi della volontà sublimata, andavo creando il rifugio di una realtà provvisoria popolata dai docili spettri dei sogni. La poesia è scala alla divinità e il lavoro dell'arte è già principio di creazione. Poeta e profeta per oggi - e Dio, forse, domani! 32.

Ma anche il Dio di Papini o, meglio, il Papini-Dio ha bisogno di un volto, di un'immagine in cui riscontrare la propria


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identità, e questa ancora una volta, non può essere che l'immagine «altra» di Dio, il suo doppio, il Diavolo:

È alto e molto pallido: è ancora abbastanza giovine, ma di quella giovinezza che ha vissuto troppo e che è più triste della vecchiaia. Il suo volto bianchissimo e allungato non ha di particolare che la bocca sottile, chiusa e serrata, e in più una ruga, unica e profondissima, che s'innalza perpendicolarmente fra le sopracciglia e si perde quasi alla radice dei capelli 33.

Un diavolo che somiglia — nel pallore del viso, nella bocca serrata — alla vecchia foto del piccolo Giovanni, un diavolo che «non è più l'irsuto e mostruoso demonio del medioevo, caudato e cornuto» e ha smesso di tentare poiché «ha visto ormai che la tentazione è perfettamente inutile. Gli uomini peccano da sé» 34, è, anzi, egli stesso tentato (Il Demonio tentato, T. Q.), sollecitato, provocato a compiere finalmente la sua opera e a farsi così «il vero contrastatore d'Iddio, il definitivo distruttore dell'essere 35:

Fondi, assimila, unisci, lega, livella, eguaglia, sopprimi le diversità, riduci (...) tutte le sostanze a una sola sostanza, tutte le forme della forza a una sola forma, e questa sola forma della forza al solo elemento della sostanza e vedrai allora che il mondo a poco a poco impallidirà, si attenuerà, ti si svanirà fra le mani, e tu stesso e lo stesso Dio sarete una sola cosa e questa sola cosa farà parte del tutto e sparirà con esso» 36.

L'ansia, lo spirito di distruzione, raggiunge qui il suo culmine, nel momento stesso in cui l'io narrante — l'autore? — stimola il demonio all'opera che egli stesso si propone. Papini parla al diavolo e a se stesso, si riconosce, così come in Dio, nell'angelo ribelle, vuole assumerne il compito. E forse è questo l'empito, polemico e rinnovatore, la pars destruens del suo ruolo, che lo spingerà, di lì a pochi anni, verso l'«esperienza futurista» ma, all'interno di questa, sarà poi ancora


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la pars construens a prevalere, nell'insofferenza all'ortodossia esasperata, all'epigonismo di maniera in cui rischiava di spengersi il fuoco eversore marinettiano ma, soprattutto, nella tenace fiducia nel compito creativo e rivelatore dell'arte nei confronti della realtà. L'introduzione della «natura» nell'elaborazione artistica, la sostituzione delle cose alla loro «trasformazione lirica o razionale» 37, gli fanno intravedere, temere un ulteriore sopravvento del dominio della realtà sull'arte: «il cerchio si chiude», «la creazione che si rifà semplice azione; l'arte che torna natura greggia» 38. E Papini dissente, polemizza, fa parte a sé, sostiene la preminenza dell'arte sulla natura, crede nel suo intervento rinnovatore e costruttivo e, finalmente, affida il proprio furore demolitore agli inquietanti, ormai imminenti bagliori della guerra: siamo nel 1914.


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